EMPATIA

Sia negli ambiti psicoanalitici che in quelli psicologici e sociali e anche in quelli strettamente di competenza della ricerca empirica questa parola echeggia un po' misteriosa, un po' inquietante.Empatia è la traduzione della parola inglese "empathy" coniata per tradurre il termine tedesco "Einfuhlung", ma ha anche un'altra origine: dal greco empatheia; già questa differenziazione crea una serie di confusioni, dal concetto di "immedesimazione", che sottende un processo di identificazione, vicino al termine tedesco, al concetto, più relazionale, di entrare nella sofferenza dell'altra persona, letteralmente dal greco.
Potremmo anche azzardare un parallelo con l'evoluzione del concetto di empatia dall'estetica tedesca del XIX secolo, dove costituisce un'esperienza di romantica fusione dell'anima con la natura, esperienza, dunque, dove esiste una sensibilità soggettiva e una realtà obiettiva, al concetto di empatia di Theodor Lipps, che in un saggio del '900 la definisce come una funzione psicologica fondamentale per l'esperienza estetica, e dove la sensibilità umana è proiettata nelle forme con gli atti costruttivi dell'occhio e dell’interpretazione visiva.
Non ci addentriamo, evidentemente, in questa ricerca etimologica e teorica per passare a un breve e ridottissimo excursus storico sull'uso del termine in psicologia e in psicoanalisi.
L'accezione più comune del termine "empatia" è quella che troviamo nella definizione di Lichtenberg (1983) come atto di "entrare nello stato mentale dell'altra persona" che diventa poi "modo di percepire lo stato mentale dell'analizzando".
Rogers e la sua scuola (1980) la definiscono come capacità da parte del terapeuta di entrare nel mondo personale del cliente in modo così intimo da percepirne anche la parte inconsapevole, o inconscia, e comunicarla in un linguaggio sintonizzato sul suo, considerando così l'empatia una delle tre condizioni necessarie e sufficienti per il cambiamento psicologico.
Anche Freud parla di Einfuhlung, in Psicologia delle masse e analisi dell'io (1921) per citare un passo noto, nei termini di un processo, che la psicologia chiama "immedesimazione". Questa ci permette di intendere l'io estraneo di altre persone, e non è considerata di per sé un fattore terapeutico, ma un importante prerequisito dell'interpretazione.
Sarà poi Kohut (1959-1981) con la psicologia del sé a dare all'empatia un'importanza centrale e a definirla come strumento per comprendere il sé del paziente dall'interno, in opposizione al comprendere astratto derivato dalle teorie.
Kohut parla di “immersione empatica” e di “introspezione vicariante” per definire la nostra capacità di pensare e sentire noi stessi nella vita inferiore di un'altra persona, di provare ciò che un'altra persona prova. L'esempio è quello della madre che deve provare i medesimi sentimenti del bambino, anche se in modo meno intenso, altrimenti non potrebbe calmarlo.
In Kohut appare l'idea che l'empatia, per la sua semplice presenza, abbia un effetto benefico sia nella situazione analitica sia nella vita in genere. Egli ritiene che la presenza di rapporti empatici nell'infanzia garantisca uno sviluppo sano poiché questi rapporti forniscono alcune funzioni indispensabili quali il rispecchiamento, l'esperienza di oggerto-sé idealizzato e l'esperienza di gemellarità, ma per quanto riguarda in particolare i rapporti terapeutici, ritiene che il cambiamento avvenga attraverso altri meccanismi, quali per esempio l'apertura di un canale di empatia tra sé e oggetto-sé.
Saranno i successori di Kohut a sviluppare il concetto di empatia come fattore terapeutico: Terman (1988) ritiene che il legame empatico sia l'elemento curativo centrale, allo stesso modo Bacai (1990) con il termine di "responsività ottimale" definisce il rapporto empatico come l'esperienza dell'analista che risponde con modalità che facilitano il rafforzamento, la crescita e la vitalità del sé nel cliente.
Fosshage (1997) introduce un aspetto più intersoggettivo mettendo in luce l'importanza per il paziente, in certi momenti, anche di comprendere e sperimentare il punto di vista dell'altro. Weiss e Sampson (1986) hanno messo in luce altri aspetti dell'esperienza empatica parlando dell'atteggiamento "proplan" del terapeuta, che viene incontro al desiderio inconscio del paziente di disconfermare le credenze patogene. Feiner e Kiersky (1994) propongono un modello sulla natura dell'empatia per la maggior parte condiviso in ambito clinico: il processo empatico consisterebbe in una fase iniziale in cui una serie di percezioni sensoriali genera una risonanza affettiva, basata sulla capacità umana innata di accedere agli stati affettivi ed esperienziali di altri esseri umani, e in una seconda fase in cui complesse operazioni cognitive e affettive contribuiscono alla costruzione dei si significati. Stolorow (1992) parla di analogie tra i principi organizzatori di chi osserva e quelli della persona osservata; Correale (1999) fa riferimento all'intervento dei processi immaginativi; Fonagy (1995) definisce “madre empatica” colei che riesce a comprendere gli stati mentali del bambino come entità separata, cioè che possiede una "teoria della mente". Levine (1997) nota che in gran parte della letteratura contemporanea l'empatia è indistinguibile dal contro transfert, cioè da quelle aree esperienziali in cui i pensieri e i sentimenti passeggeri sperimentati da una persona le permettono di registrare sensazioni sulle esperienze e sul mondo interno di un'altra persona e di provare quindi una comune comprensione empatica.
Possiamo così riassumere che l'empatia, così come è stata finora interpretata, consista principalmente nell'ascoltare e comprendere l'esperienza del paziente dall'interno della sua prospettiva; dunque ascoltare e comprendere nell'accezione più vasta del termine, sintonizzarsi con i bisogni del paziente, accettarlo profondamente, coinvolgersi affettivamente, monitorando continuamente il proprio atteggiamento. Tutti questi aspetti concorrono a far sì che l'empatia sia un fattore terapeutico specifico della psicoterapia e non (ovvero comune a più trattamenti), principalmente per una serie di caratteristiche positive che potremmo così, altrettanto brevemente riassumere seguendo gli autori citati prima: aspetto di contenimento, condivisione emotiva, accettazione da parte di una figura idealizzata, rafforzamento della coesione del sé, esperienza emotiva correttiva, formazione di nuovi principi organizzatori, ecc.L'empatia intesa come "struttura" e come elemento "fondativo" dell’esperienza psicoterapeutica.L'empatia psicoanalitica è argomento delicato e complesso, in quanto mette in gioco, nel realizzarsi del processo analitico, il prezioso intrecciarsi di due mondi interni che entrano in contatto profondo.
La disposizione empatica dell'analista, quale autentica capacità di sentire l'altro `dal di dentro', ne è quindi una variabile determinante. Potremmo definire l’empatia quasi come un processo identificativo, anche se in realtà l'identificazione è un meccanismo che mettiamo in atto per evitare sentimenti di angoscia, colpa o perdita, prendendo la scorciatoia della (con)fusione tra noi e l'altro, l'empatia serve piuttosto a sentire e comprendere queste condizioni interne.
La differenza fondamentale sta nel livello di consapevolezza presente: chi si identifica normalmente non ne è conscio, mentre chi empatizza sì. Quindi, mentre l'identificazione è un processo prevalentemente inconscio, l'immedesimazione empatica accade invece a livello conscio e preconscio, è un evento transitorio e non sostitutivo, pertanto prevede la consapevolezza della separazione.Non a caso la comprensione empatica vera spesso si realizza solo dopo periodi anche lunghi di non comprensione e di confusione, durante i quali all'analista spetta il compito di restare in posizione di ascolto fiducioso, senza per questo cadere nello sforzo coatto di ricercare il contatto a tutti i costi.
Personalmente sento il concetto di empatia molto vicino a quello che ne da Edith Stein, una pensatrice di formazione fenomenologica che poi ha preso la via della mistica,ha chiamato empatia l'atto mediante il quale l'essere umano si costituisce attraverso l'esperienza dell'alterità, cioè del rapporto con l'altro.
“L'empatia” dice la Stein “è l'atto paradossale attraverso cui la realtà di "altro", di ciò che non siamo, non abbiamo ancora vissuto o che non vivremo mai e che ci sposta altrove, nell'ignoto, diventa elemento dell'esperienza più intima cioè quella del sentire insieme”.
Credo che al di là dei termini che più o meno risuonano nella nostra mente durante l'esperienza quotidiana di psicoterapeuti, quindi sentire insieme, immedesimarsi, partecipare all'esperienza del paziente, intesa nel vero significato questa esperienza dell'empatia sia veramente affascinante.
Dobbiamo infatti intenderla come "esperienza dell'esperienza dell'altro", attraverso cui si costituisce la soglia della soggettività, ma soggettività che nello stesso tempo si abbandona, per andare incontro all'altro.
In altri termini nell'incontro con l'altro inteso in questa modalità accade un imprevisto che mette radicalmente in questione l'unità di ciò che comunemente viene chiamato Io.
O ancora, l'esperienza empatica è quella che fa uscire dai confini dell'io, non è: “Provare insieme” ma: “Allargare la propria esperienza cosi che sia in grado di accogliere l'esperienza dell'altro”.
In effetti questo rendersi conto, giocato sul confine tra interno ed esterno, di qualcosa che è davanti a noi e ci si oppone, si presenta come una rottura della continuità della nostra esperienza, ma è l'aspetto fondativo e strutturale che permette di dare all'esperienza empatica il valore di atto di coscienza, permettendo lo scambio di senso. Lo spazio-intersoggettivo si configura, alla luce di queste osservazioni, come un non-luogo, ma allo stesso tempo come il luogo, l'evento appunto, in cui si concreta la relazione interpersonale tra me e l'Altro, lo spazio che permette e costringe la trascendenza, cioè l'andare oltre, o, potremmo ancora dire, lo spazio/tempo infinito e discontinuo che permette il divenire, cioè di uscire da una circolarità chiusa di tipo narcisistico.
E’ importante in questo momento storico del nostro lavoro come psicoterapeuti interrogarci sul senso, appunto, di quello che stiamo facendo,sull'autenticità del nostro operare, tanto più se questo comporta effettivamente dei cambiamenti in noi stessi e nei nostri pazienti; interrogarci quindi sul senso di questo incontro.
Dobbiamo far entrare l'empatia dalla porta principale, e non considerarla un semplice supporto di ogni incontro ben riuscito. L'empatia riguarda infatti la fase della creazione di un contratto, prima di tutto con se stessi, riguardo la situazione di ciascuno di noi, sul come e quanto si è in grado o si è disponibili a rinunciare alla propria soggettività.
Solo in base a questo, e premesso questo, è possibile creare un'alleanza, buona o cattiva che sia.
Questa operazione di rinuncia, o meglio, questa "funzione" che comporta vissuti di vuoto e di destabilizzazione, a favore della possibilità dell'incontro (quindi di creare quello che abbiamo chiamato spazio o evento empatico), è "in fieri" sia nel terapeuta che nel cliente,ed è un progetto inconsapevole

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